Avete già provato a mettere il vostro nome in Google? Qualche giorno fa ho rifatto l’esperimento. Risultato: il mio profilo Facebook, Twitter, Google+, Linkedin, qualche foto, pagine legate al mio lavoro e allo sport che pratico. Se, come me, siete delle persone “normali” – non siete cioè dei personaggi pubblici, siete iscritti ad alcuni social networks e magari siete affiliati a una società sportiva – il vostro risultato sarà molto probabilmente simile al mio. Vi siete già chiesti cosa succederà a tutte queste informazioni digitali una volta che non ci sarete più? Sì, avete ragione, rimarranno in rete. Del resto era così anche prima dell’avvento del mondo virtuale: chi moriva lasciava dietro di sé vestiti, fotografie, lettere, mobili, suppellettili, pentole, lenzuola e tutta una serie di altri oggetti o documenti.
Ci sono però alcune differenze tra le scie reali e quelle virtuali. Innanzitutto quelle virtuali sono immuni (o quasi) al tempo (quello che passa). La carta si disintegra, le foto ingialliscono, le pellicole si sbriciolano, i nastri magnetici si sfaldano, il vinile a poco a poco si deforma, mentre i bit se ne restano lì, disponibili per la prossima persona che scriverà il vostro nome in Google. Inoltre sono molto più resistenti alla nostra sbadataggine e agli incidenti. La nostra pagina Facebook, le e-mail o il blog scritto durante il viaggio di dieci anni fa non finiscono per sbaglio in lavatrice, non bruciano negli incendi e non scompaiono coi traslochi. E da ultimo, la visibilità di queste scie virtuali sono determinate dalle scelte fatte in precedenza dal defunto. Alcune sono accessibili a un’ampia cerchia di persone – solitamente la foto di profilo su Facebook – mentre altre, come ad esempio le e-mail, sono invisibili a chiunque. Per quanto riguarda le lettere e le foto cartacee, invece, la persona scomparsa non ha più nessuna voce in capitolo ed è la discrezione e il buon senso di chi resta a decidere se sia il caso di leggerle o meno.
Ed è proprio da queste differenze che nascono (ulteriori) complicazioni e dibattiti. Il problema più ricorrente è quello dell’account di posta elettronica o Facebook del defunto. “Tra le sue e-mail ci sono informazioni di cui abbiamo bisogno. Ci avrebbe sicuramente dato la password se avesse saputo cosa sarebbe successo” osservano indignati certi parenti di fronte al rifiuto da parte Google o Yahoo di fornirgliela. “Non ci piace che chiunque possa ancora vedere certe sue foto” affermano alcuni amici a proposito della sua pagina Facebook.
Io però non credo che questi aspetti siano da imputare alle nuove tecnologie, quanto piuttosto che internet e i social network abbiano esasperato comportamenti già esistenti al tempo delle foto e delle lettere cartacee. Infatti gli impiccioni che aprivano la corrispondenza privata altrui ci sono sempre stati (si faceva col vapore, no?). Tuttavia, un tempo, era più difficile che c’intestardissimo nel voler recuperare ricordi che (nella maggioranza dei casi) non ci erano mai davvero appartenuti. Alla morte del nonno realizzavamo che le uniche foto ancora in buono stato erano quelle in cui aveva immortalato i suoi gerani (oh toh, nessuno le vuole!) e che le annotazioni del Safari a cui aveva partecipato quand’era giovane erano andate perse (eh no, non bastava digitare “luigivainafrica.blogspot.com”). Così ci mettevamo il cuore in pace. A volte succedeva che un po’ di tempo dopo qualcuno chiedesse: “E quel diario del viaggio in Africa, l’avete poi trovato?” “No, chissà dov’è finito” rispondevamo con un tono di resa. Ma in realtà, la nostra, non era una resa, era una vittoria. Nei confronti della vita. Quella vera. Quella che doveva continuare.
Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di febbraio 2014.