Immortalità virtuale

Avete già provato a mettere il vostro nome in Google? Qualche giorno fa ho rifatto l’esperimento. Risultato: il mio profilo Facebook, Twitter, Google+, Linkedin, qualche foto, pagine legate al mio lavoro e allo sport che pratico. Se, come me, siete delle persone “normali” – non siete cioè dei personaggi pubblici, siete iscritti ad alcuni social networks e magari siete affiliati a una società sportiva – il vostro risultato sarà molto probabilmente simile al mio. Vi siete già chiesti cosa succederà a tutte queste informazioni digitali una volta che non ci sarete più? Sì, avete ragione, rimarranno in rete. Del resto era così anche prima dell’avvento del mondo virtuale: chi moriva lasciava dietro di sé vestiti, fotografie, lettere, mobili, suppellettili, pentole, lenzuola e tutta una serie di altri oggetti o documenti.

Ci sono però alcune differenze tra le scie reali e quelle virtuali. Innanzitutto quelle virtuali sono immuni (o quasi) al tempo (quello che passa). La carta si disintegra, le foto ingialliscono, le pellicole si sbriciolano, i nastri magnetici si sfaldano, il vinile a poco a poco si deforma, mentre i bit se ne restano lì, disponibili per la prossima persona che scriverà il vostro nome in Google. Inoltre sono molto più resistenti alla nostra sbadataggine e agli incidenti. La nostra pagina Facebook, le e-mail o il blog scritto durante il viaggio di dieci anni fa non finiscono per sbaglio in lavatrice, non bruciano negli incendi e non scompaiono coi traslochi. E da ultimo, la visibilità di queste scie virtuali sono determinate dalle scelte fatte in precedenza dal defunto. Alcune sono accessibili a un’ampia cerchia di persone – solitamente la foto di profilo su Facebook – mentre altre, come ad esempio le e-mail, sono invisibili a chiunque. Per quanto riguarda le lettere e le foto cartacee, invece, la persona scomparsa non ha più nessuna voce in capitolo ed è la discrezione e il buon senso di chi resta a decidere se sia il caso di leggerle o meno.

Ed è proprio da queste differenze che nascono (ulteriori) complicazioni e dibattiti. Il problema più ricorrente è quello dell’account di posta elettronica o Facebook del defunto. “Tra le sue e-mail ci sono informazioni di cui abbiamo bisogno. Ci avrebbe sicuramente dato la password se avesse saputo cosa sarebbe successo” osservano indignati certi parenti di fronte al rifiuto da parte Google o Yahoo di fornirgliela. “Non ci piace che chiunque possa ancora vedere certe sue foto” affermano alcuni amici a proposito della sua pagina Facebook.

Io però non credo che questi aspetti siano da imputare alle nuove tecnologie, quanto piuttosto che internet e i social network abbiano esasperato comportamenti già esistenti al tempo delle foto e delle lettere cartacee. Infatti gli impiccioni che aprivano la corrispondenza privata altrui ci sono sempre stati (si faceva col vapore, no?). Tuttavia, un tempo, era più difficile che c’intestardissimo nel voler recuperare ricordi che (nella maggioranza dei casi) non ci erano mai davvero appartenuti. Alla morte del nonno realizzavamo che le uniche foto ancora in buono stato erano quelle in cui aveva immortalato i suoi gerani (oh toh, nessuno le vuole!) e che le annotazioni del Safari a cui aveva partecipato quand’era giovane erano andate perse (eh no, non bastava digitare “luigivainafrica.blogspot.com”). Così ci mettevamo il cuore in pace. A volte succedeva che un po’ di tempo dopo qualcuno chiedesse: “E quel diario del viaggio in Africa, l’avete poi trovato?” “No, chissà dov’è finito” rispondevamo con un tono di resa. Ma in realtà, la nostra, non era una resa, era una vittoria. Nei confronti della vita. Quella vera. Quella che doveva continuare.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di febbraio 2014.

Ritorno al passato

Questa rubrica è cominciata con un’idea: le nuove tecnologie sono arrivate con delle istruzioni dettagliatissime dal punto di vista tecnico ma assai carenti circa il modo di comportarsi nei loro confronti e hanno quindi creato tutta una serie di nuove abitudini, di modi di pensare, di agire e di relazionarci col prossimo, spesso difficilmente prevedibili prima che l’invenzione in questione prendesse piede. In seguito, nel tentativo di convincervi di questo mio punto di vista, mese dopo mese, ho scelto un’invenzione recente – tra cui ad esempio l’e-mail, lo smartphone e l’ipad – e ho cercato di evidenziare le dinamiche, a volte ridicole, a volte inquietanti, che si sono sviluppate – alzi la mano chi l’estate scorsa non ha controllato almeno una volta le e-mail in spiaggia. Questa volta vorrei però sconfinare oltre la mia idea originale e considerare quei ritrovati tecnologici che per le problematiche che hanno creato sono stati abbandonati a favore dei loro antenati. I casi più lampanti si trovano probabilmente tra i mezzi di trasporto. Basti ad esempio pensare all’inquinamento prodotto dalle automobili e alla decisione di alcuni utenti di spostarsi solamente in bicicletta, oppure ai viaggi intercontinentali di certi cibi e a coloro che hanno ripreso a coltivare il proprio orto. Tuttavia, questo ritorno all’antico non concerne soltanto la salvaguardia dell’ambiente. Secondo un recente articolo pubblicato sul Corriere Della Sera1 al Cremlino starebbero rispolverando le macchine per scrivere. Ebbene sì, parrebbe che di fronte alla vulnerabilità del mondo virtuale dimostrata dal recente caso del Datagate, gli 007 russi abbiano deciso di correre ai ripari redigendo dispacci e documenti dai contenuti sensibili o d’importanza strategica pigiando sui tasti delle vecchie macchine “Mosca”.

Di fronte a questo ritorno al passato una domanda è d’obbligo: si tratta di tentativi circoscritti o di vere e proprie soluzioni ai problemi di alcune nuove tecnologie? A mio modo di vedere, in una società altamente globalizzata come la nostra, queste alternative che guardano all’antico possono prendere piede solo su scala locale. Mi spiego. Andare al lavoro in bicicletta o fare la salsa rossa usando i pomodori dell’orto è possibile e forse anche doveroso ma applicare queste iniziative su scala globale è decisamente utopistico. Le necessità (che qualcuno potrebbe giustamente chiamare comodità) messe in gioco sono troppe e troppo grandi. Quanti di voi sarebbero disposti a non più uscire al ristorante perché i piatti che servono non sono a chilometro zero? Chi è pronto a rinunciare ad andare a trovare i parenti che vivono al di là dell’oceano perché l’aereo inquina? Senza poi parlare degli interessi in gioco delle ditte petrolifere o di trasporto. E per quanto riguarda l’abolizione dei computer al Cremlino vale lo stesso discorso. Indubbiamente redigere un certo dispaccio con la macchina per scrivere permette di avere un controllo maggiore sulla fuga di informazioni, ma per spedire i documenti da un ufficio all’altro come fanno? Reintroducono i piccioni viaggiatori?

Siamo andati oltre, abbiamo creato dei bisogni a cui non riusciamo più a fare a meno, e l’unica soluzione sembra essere quella di andare avanti. Forse su quel libretto di istruzioni che nessuno ha ricevuto in dotazione ci sarebbe voluta una di quelle avvertenze circondate da un rettangolo rosso e con accanto un punto esclamativo. Attenzione: può creare dipendenza!

1Articolo apparso il 12 luglio 2013: http://archiviostorico.corriere.it/2013/luglio/12/Macchine_scrivere_Cremlino_ritorno_all_co_0_20130712_fdedab3a-eab9-11e2-984f-d26d20cb9a80.shtml

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di gennaio 2014.

Scarpe e leoni

Qualche anno fa un amico mi ha raccontato questa storiella. Non ricordo con esattezza i nomi dei protagonisti e dei luoghi ma della trama sono abbastanza sicura. Dunque… Si narra di due spavaldi avventurieri che durante un safari in un parco nazionale africano (che avrebbe potuto essere quello di Etosha in Namibia) decisero di abbandonare la propria guida alla ricerca di sensazioni più vere. Fu così che si ritrovarono faccia a faccia con un leone, il quale aveva tutta l’aria di non cibarsi da giorni. Uno dei due, in fretta e furia, aprì il suo zaino e tirò fuori un paio di scarpe da ginnastica. L’altro, tra il terrorizzato e l’allibito, gli chiese: “Ma cosa diavolo stai facendo? Quelle scarpe non ti faranno di certo correre più veloce di quel leone!”. “Più veloce del leone no, ma di te sì” ribatté allora con un sorriso beffardo il padrone di delle leggere calzature guardando i pesanti scarponi del suo compagno.

A mio modo di vedere questo breve racconto obbliga a due riflessioni: una è piuttosto scontata mentre la seconda mi ha sempre messo in difficoltà.La prima, quella ovvia, è che in certe situazioni, per salvarsi o anche per raggiungere un certo obiettivo, non è sempre necessario essere i più veloci, i più bravi, i più intelligenti. A volte è sufficiente essere migliori di qualcun altro. La seconda invece riguarda la morale. Quando è lecito usare i mezzi a propria disposizione? Nel caso della storiella, descrivendovi il protagonista dotato di scarpe da ginnastica come un individuo senza scrupoli (il sorriso beffardo non glielo avete di certo perdonato), vi ho un po’ fuorviato, ma cos’avrebbe dovuto fare l’avventuriero? Dare una scarpa al suo compagno con la certezza quasi matematica di venir divorati entrambi? Dargli le sue scarpe e condannare se stesso a una fine certa? E se invece di essere dotato di un paio di scarpe da ginnastica fosse stato semplicemente più veloce? Siccome la genetica o l’allenamento non si possono trasferire, la sua salvezza sarebbe stata più “accettabile”? Oppure non è tanto la salvezza in sé che state condannando, quando piuttosto i modi? Avreste preferito un dialogo in stile hollywoodiano?

– Prendile tu le scarpe!

– No, non posso accettarle, salvati, tu che puoi!

– Non ci riesco, non posso lasciarti qui a morire!

– Vai, scappa!

E via di seguito.

Non ho una vera risposta. Credo che quando ci sia di mezzo la propria sopravvivenza e che il tempo per decidere sia poco, solo la nostra coscienza ci possa condannare per aver usato tutti i mezzi a nostra disposizione. No, io me la prendo con coloro che hanno gli armadi pieni di scarpe da ginnastica e ne portano un paio sempre con sé. Nella borsetta. In auto. In vacanza. Meriterebbero di schiantarsi contro un baobab.

Qualunque cosa

C’è stato un tempo in cui mi dicevano che avrei potuto diventare qualunque cosa e io non vedevo l’ora di ottenere quella libertà che mi avrebbe permesso di dare forma alle infinite possibilità che la mia mente di ragazzina riusciva a concepire. Col tempo alcune di esse hanno perso qualsiasi attrattiva, le mie scelte ne hanno scartate altre, e  ne è rimasta soltanto una, forse due, capace di dare un senso alla mia esistenza.

E così, come succede con tutti i desideri da cui si crede dipenda la realizzazione o meno della propria vita, provo un sentimento tra l’entusiasmo e la paura, il quale ha in ostaggio la mia quotidianità, i miei pensieri, i miei domani. Ho l’entusiasmo dello scultore che sa esattamente la forma che vuole modellare e non vede l’ora di mettersi al lavoro, ma allo stesso tempo ho paura che i miei strumenti non siano in grado nemmeno di scalfire il materiale del sogno nel quale già vedo le fattezze di una splendida realtà. Ho sete di viaggiare, di costruire, di creare, ma a tratti mi sorprendo a temere la vita e le sue infinite interpretazioni. E se mi stessi perdendo in attività, in pensieri, in preoccupazioni senza senso? Ma poi qual è il senso? Esistono solo il caso e le sue mille interpretazioni o c’è un destino a cui non possiamo sfuggire? Cerco risposte in chi mi sta accanto, in chi ha vissuto prima di me, nei libri, e trovo solo il conforto di una situazione comune.

D’altro canto quando in un barlume di lucidità (o di pazzia) ci sembra che tutte le nostre esperienze, vicissitudini e situazioni ci stiano indicando una certa direzione, conta poco se davvero è cosi o se si tratta soltanto di una nostra interpretazione, non abbiamo scelta, è quello che faremo. Nonostante i dubbi. Nonostante i pareri contrari. Nonostante le paure. È un po’ come quando durante un punto importante di una partita di tennis, in quella frazione di secondo prima di colpire la pallina,  il nostro braccio e il nostro cervello si mettono d’accordo per farci tentare un vincente lungolinea: c’è chi, a bordo campo, mormora che da un punto di vista tattico e di facilità di esecuzione ci fosse un colpo più adeguato, ma le ore d’allenamento, l’esperienza e i consigli ricevuti hanno generato un riflesso a cui era impossibile opporsi. Ed è proprio la consapevolezza che era l’unica cosa che in quel momento eravamo in grado di fare a salvarci da qualsiasi rimpianto.

È buffo: vogliamo essere liberi, ma spesso, terrorizzati dai “se” e gli “avrei” che hanno fatto vacillare molti prima di noi, cerchiamo di deresponsabilizzarci. Scegliamo, in certi casi combattiamo persino per poterlo fare, e allo stesso tempo ci convinciamo, invocando il destino o altre entità, che non potevamo fare altrimenti. È uno di quei trucchi che a volte funziona.

Tragedie greche moderne

Ve l’immaginate Penelope che telefona preoccupata a Ulisse ?

  • Quando torni a casa? Sono anni che ti aspetto! I Proci non mi danno tregua.

  • Cara, è tutto a posto, sarò presto da te. Però adesso non è davvero il momento per le chiacchiere, c’è Polifemo che grida, ti sento male!

Come dite? Vi sembra una situazione assurda? Certo, così come a volte lo è il nostro desiderio di controllare ciò che ci circonda e le persone a cui vogliamo bene. Fidanzati che dopo essere andati al cinema con un amico si ritrovano il telefonino tempestato di chiamate e messaggi della fidanzata gelosa – “Perché non mi rispondi?” e “Con chi sei?” sono probabilmente gli sms più classici. Genitori ansiosi che scaricano applicazioni espressamente sviluppate per consentirgli di pedinare i propri figli (pare che alcune permettano addirittura di sapere la velocità a cui stanno sfrecciando i propri pargoli). Nonne apprensive che non appena il servizio meteorologico annuncia neve telefonano a figli e nipoti facendogli promettere che non usciranno di casa in auto.

Per avere la conferma di questi comportamenti basti osservare ciò che succede subito dopo (o forse sarebbe più esatto dire durante) l’atterraggio di un aereo. Il segnale luminoso delle cinture di sicurezza non si è ancora spento che già ha inizio il concerto dei motivetti di accensione dei diversi dispositivi elettronici, seguito poi dai “beep beep” dei messaggi ricevuti durante il volo e da frasi come “Sì sì, è andato tutto bene, siamo appena atterrati”. Ma prima dell’avvento degli smartphones e dei cellulari come facevamo a tenere a bada le nostre preoccupazioni? Quando la persona a cui volevamo bene partiva in viaggio si avevano sue notizie solo quando arrivava in albergo o trovava una cabina telefonica. Eppure, paradossalmente, ho l’impressione che ci preoccupassimo meno. Non avere sue notizie era normale e ci mettevamo il cuore in pace. Oggigiorno invece, visto che siamo (quasi) sempre connessi a una rete mobile, invece di dare per scontato che se una persona non risponde è perché non ha sentito la chiamata, ha la batteria scarica o è in un luogo in cui non può parlare al telefono (ebbene sì, ne esistono ancora), temiamo subito il peggio.

Trovo inoltre interessante (preoccupante?) che gli smartphones abbiano esteso questo desiderio di controllo anche sulla cronaca. Verifichiamo più volte al giorno, quasi che sia un nostro conoscente, i bollettini medici riguardanti il tal personaggio pubblico ricoverato in ospedale e c’innervosiamo se non troviamo una wireless per controllare gratuitamente l’esito di una rivolta scoppiata in un paese mai visitato e lontano migliaia di miglia da noi. Con questo non sto dicendo che sia sbagliato interessarci a ciò che succede attorno a noi, semplicemente che il nostro continuo cercare online, digitare e cliccare va al di là di un genuino interesse o preoccupazione per un certo tema.

Ansie e paure esistono da sempre. Oggigiorno ci sono però sempre più mezzi per dargli sfogo. In questo senso lo smartphone sembrerebbe proprio fungere come da cordone ombelicale. Un cordone ombelicale fine e delicato, che non solo abbiamo il terrore di rompere ma che per di più ha esteso la nostra (illusoria) possibilità di controllo. A questo punto qualcuno obietterà che in alcune situazioni, magari gravi, gli smartphones sono utili e sospirerà “Ah se solo Teseo avesse avuto il cellulare!”. Vero, ma perché fare di ogni mancata risposta una tragedia (greca)?

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di dicembre 2013.

Spiegazioni

Ci piacciono le spiegazioni. Spesso ci danno un senso di ordine e ci suggeriscono che va tutto bene, che le cose sono sotto controllo. Fa freddo perché è inverno. Gli oggetti cadono a terra perché esiste una forza chiamata gravità. Il tale è andato al supermercato perché aveva il frigo vuoto. Con la fisica, o almeno con quella, definiamola così, di base, questo tipo di ragionamenti funzionano. Con le persone, invece, le cose si fanno un po’ più complicate. E se il tizio fosse andato al supermercato senza una ragione particolare? Ma no, ci dev’essere una spiegazione, non è possibile. Uno non va al supermercato, così, tanto per fare. Magari non aveva un ingrediente fondamentale per la cena che voleva preparare. Magari si sentiva solo, pioveva, e voleva stare in mezzo alla gente (e quando fa brutto, si sa, son tutti nei centri commerciali). O forse, invece, si è innamorato della cassiera. Insomma, se la spiegazione, non è lì, a portata di mano, trac, il nostro cervello ci fornisce tutta una serie di varie ipotesi che tengono a bada il nostro timore che un certo gesto non abbia un motivo. Sì, perché niente ci spaventa di più delle cose irragionevoli, inspiegabili, a cui non sappiamo dare un nome (probabilmente esiste un nome per la malattia di chi va al supermercato senza aver bisogno di acquistare nulla, ma questa è un’altra storia). 

Per la gioia di chi mi sta attorno, a volte (abbastanza spesso?) mi capita di arrabbiarmi e di essere triste (le due cose, nel mio caso, vanno spesso a braccetto) per dei motivi banali, stupidi, che andrebbero archiviati con un sorriso. O, per dirla in un altro modo, reagisco in maniera esagerata a una frase non proprio felice o a un gesto maldestro. Di fronte a queste mie sceneggiate, ho visto dire e fare di tutto. Ho ricevuto dei “Non intendevo” e delle scuse più o meno immeritate, mi sono sentita dire frasi ironiche nel tentativo di sdrammatizzare la situazione, sono stata abbracciata con affetto. E ogni volta non è servito a niente. No, non è servito a niente perché il motivo apparente del litigio non centra nulla col mio stato d’animo. Uno stato d’animo che nessuno potrà mai confortare e che deriva da un indefinito timore. Di vivere (come faceva quella canzone?” “Ma il coraggio di vivere, quello, ancora non c’è”). Di non riuscire in quello in cui credo. Di sprecare il mio tempo (tutti vorremmo leggere qualche libro in più e guardare qualche telefilm in meno). Di non esserci più un giorno. Di non lasciare indietro nulla di buono. Di perdere quello che amo. Ora, per riallacciarmi a quanto dicevo prima del supermercato, non è esattamente che non ci sia una ragione per la mia rabbia e la mia tristezza, ma non si tratta di una di quelle spiegazioni che ci piacciono o che, come dire, risolvono la situazione e ci danno l’impressione che l’universo sia in ordine. È un po’ come se il tizio di prima andasse al reparto frutta e verdura perché vorrebbe essere più alto. Ora, non solo è nel posto sbagliato, ma la sua richiesta non si può esaudire. Quindi, qualunque cosa gli possano dire i commessi (“Queste zucchine sono favolose” o “La zucca è in azione”) non serve a nulla. Ma per di più lui sa anche che rivelando il vero motivo della sua presenza al reparto frutta e verdura (a volte ci mette parecchio tempo a capirlo lui stesso) non risolverebbe granché. Anzi, i commessi non gli crederebbero e gli direbbero di assumersi le sue responsabilità: “Ha toccato quella zucca con le sue manacce, adesso la compri e se la porti a casa, non penserà mica di cavarsela raccontandoci i suoi complessi di statura!”). È andato al supermercato perché voleva essere più alto. Che razza di spiegazione è? Non è una spiegazione, dà adito ad ancora più domande, non ha senso. Eppure è così. Lui, ogni volta che si guarda allo specchio, ci ritorna, in quel negozio. Perché non sa cosa fare d’altro e ogni volta ci spera. Che i frutti siano diversi. Che la volta prima non abbia guardato bene. Che…. Sì, insomma, magari scopre il trucco, magari scopre che le persone alte mangiano, che so, un certo tipo di mele e allora potrebbe provarle anche lui. Non servirà a niente, lo sa, non è tanto ingenuo, però, a rassegnarsi, lui, proprio non ci riesce.

La Nina si arrabbia perché piove, perché voleva andare a sciare, perché voleva il gelato, perché qualcuno le ha detto qualcosa che non andava. Sarebbe così semplice.

Rispetto? Se ci sei batti un blog!

La riduzione di quella distanza fatta di rispetto e soggezione tra personaggi pubblici di un certo calibro – politici, capi di Stato, uomini di cultura – e il popolo è un fenomeno che ha avuto inizio diversi decenni fa. Benché le cause di questo fenomeno siano molteplici, alcuni osservatori della scena politica e sociale hanno evidenziato come lo spazio sempre maggiore dato da radio e televisione alle persone comuni come voi e me abbia giocato (e giochi tuttora) un ruolo di primo piano. Infatti in questo contesto tutte le opinioni, tutte le spiegazioni e tutte le idee sono messe sullo stesso piano, e le parole pronunciate da un esperto non vengono maggiormente risparmiate dalle critiche o analizzate più attentamente rispetto a quelle pronunciate da una persona qualunque.

Benché non si tratti di un meccanismo nuovo, mi sembra che negli ultimi anni esso abbia subìto una brusca accelerazione, dovuta principalmente a un gettarsi nella mischia da parte di personaggi di un certo spessore, e qui penso in particolare alla classe politica. Oggigiorno infatti molti politici possiedono un blog o sono su uno o più social networks, mezzi che ai loro esordi erano prevalentemente utilizzati da giovani studenti, e taluni partecipano persino a trasmissioni televisive che fino a qualche tempo fa erano la prerogativa di aspiranti ballerini o cantanti, azzerando l’autorevolezza data dalla carica di cui godevano un tempo. Siamo quindi di fronte a due fenomeni che convergono verso lo stesso effetto: l’uomo comune, desideroso di visibilità, cerca di avere accesso a mezzi che un tempo erano concessi quasi esclusivamente alla classe dirigente e a riconosciuti uomini di cultura, mentre i politici, nel tentativo di apparire vicini ai cittadini, scendono a discutere in una piazza virtuale in cui le loro attente opinioni vengono messe sullo stesso piano degli sfoghi sgrammaticati di un quindicenne.

Indubbiamente questa democratizzazione dei pareri ha fatto sì che una determinata opinione non sia più presa per vera a prescindere e, almeno sulla carta, una simile messa in discussione non può che essere costruttiva. Tuttavia, spesso si genera una confusione in cui tutti dicono il contrario di tutto e informarsi diventa assai arduo, col rischio che i più pigri si lascino condizionare dall’opinione più pubblicizzata. Inoltre, e questo penso sia l’aspetto più triste, noto sempre più una mancanza di rispetto. Tutti si sentono in diritto di dire qualunque cosa e di criticare senza coscienza di causa e in malo modo anche chi ha investito molto più tempo e impegno di loro in un determinato ambito. È sufficiente dare un’occhiata ai profili facebook e ai blog di alcuni politici per rendersene conto. Certo, la mancanza di rispetto è sempre esistita, ma un tempo era circoscritta, dai toni smussati e, almeno un po’, ce se ne vergognava. Guardandosi attorno con circospezione, magari con un amico che ci faceva da palo, si scriveva “Abbasso Pinco Pallino” sul muro e poi si scappava via, mentre ora si scrive ben di peggio, ogni volta che se ne ha voglia, allo scoperto.

Forse eravamo in buona fede, volevamo che tutti fossero trattati col giusto rispetto, ma ci siamo concentrati troppo sul toglierlo a chi lo possedeva a priori, col risultato che lo scherno e l’insulto gratuiti sono divenuti parte integrante di troppi dibattiti e scambi di opinione.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di novembre 2013.

Felicità

Stavo scendendo con la bici dalla solita discesa. Nelle orecchie una canzone di De Gregori. Indossavo una specie di felicità. No, non una di quelle false che ogni tanto ci cuciamo addosso dopo aver letto una frase attribuita al Dalai Lama o a Gandhi oppure uno quei libri per donne in carriera che hanno perso la bussola. E no, non si trattava nemmeno di una di quelle felicità un po’ isteriche, che sfoggiamo per il raggiungimento di un traguardo. Era piuttosto una felicità intrinseca, indipendente o quasi da ciò che sarebbe potuto succedere. Sì, proprio così, una specie di “Me la caverò sempre”, senza l’arroganza, la supponenza o il compiacimeto che questa frase potrebbe suggerire. Era solo una constatazione data dalla consapevolezza, un “Ho capito” che mi faceva sentire invincibile. Era un po’ come se avessi sviluppato una sorta di schema, fin troppo semplice e banale, che mi permetteva di vincere qualsiasi partita della vita. E gli altri se ne stavano lì a guardare senza capire. E io vincevo. E vincevo. E vincevo.

Mai più turisti per caso

C’era il tempo delle guide cartacee e ingombranti, quelle che dopo un viaggio lasciavano tracce di sabbia sulla libreria e avevano le pagine rosse del vino rovesciato al ristorante. La mappa generale della città di solito si trovava dopo il sommario e fin lì tutto sembrava facile. Poi però, per districarsi tra le viuzze del centro storico, occorreva la mappa dettagliata, nascosta nel capitolo “Cosa vedere e fare” (o era forse in quello “Costruite il vostro itinerario”?) e il risultato era che si finiva per chiedere a un passante. L’indice, poi, era una fonte infinita di litigi.

– A che pagina è il ristorante di cui mi hai parlato prima?

– Non ricordo, guarda nell’indice!

– Come hai detto che si chiamava?

– Ellens Stardust… qualcosa.

– Non c’è… sei sicuro?

– Forse devi guardare sotto la “r” di ristoranti…

– Inutile, non trovo niente che gli somigli!

E la vacanza era già partita col piede sbagliato.

Ogni viaggiatore aveva la sua filosofia al riguardo: c’era chi amava fare di testa propria e scegliere da sé cosa visitare, dove uscire a cena e dove andare a dormire (aggiungendo solitamente un “tanto sbagliano”) e chi invece le seguiva alla lettera, rifiutandosi di visitare le attrazioni con meno di tre stelle (su quattro).

Il passato è forse un tempo verbale azzardato per questa descrizione, ma le guide per gli smartphone stanno diventando sempre di più delle serie concorrenti a quelle più tradizionali a cui eravamo abituati. Innanzitutto se ne stanno nella vostra tasca e ci evitano di togliere dallo zaino pullover, ombrello e souvenir per controllare dove si trova quel locale in cui andava a mangiare pure Hemingway. Secondariamente, sono dotate di un’unica mappa che possiamo ingrandire e rimpicciolire a seconda delle nostre esigenze e che, se collegati alla rete, ci indica addirittura dove ci troviamo. Inoltre, il motore di ricerca interno ci permette di risalire a qualsiasi monumento, bar, ostello o campeggio anche se ricordiamo soltanto qualche lettera del nome.

L’aspetto più interessante penso sia però quello delle recensioni. Una volta, a scriverle, erano dei professionisti, mentre ora sono i turisti stessi. Nel primo caso si trattava, almeno sulla carta, di commenti seri, ragionati e precisi, ma il loro numero era limitato – per un determinato quartiere erano ad esempio segnalati solo alcuni caffé – e c’era chi sussurrava, nemmeno troppo sottovoce, una mancanza d’imparzialità. I commenti fai da te sono invece quasi tutti disinteressati e i luoghi d’interesse recensiti sono molto più numerosi. Certo, molti turisti sono dei novellini nel valutare e analizzare i servizi offerti da alberghi e ristoranti, tuttavia solitamente ci pensa l’alto numero di recensioni a compensare questo inconveniente. Vi consiglio comunque di controllare la nazionalità dei commentatori: quando degli americani scrivono di non aver apprezzato né il cibo né il servizio di una certa trattoria, sostenendo che gli spaghetti non erano abbastanza gustosi e criticando il cameriere per essersi rifiutato di portargli il ketchup, io, a quel ristorante, darei almeno il beneficio del dubbio.

Anche questa invenzione è arrivata senza istruzioni, ma a differenza di altri ritrovati tecnologici di cui ho parlato in questa rubrica, non mi sembra che presenti indesiderabili effetti imprevisti. Forse a qualcuno verrà un po’ di nostalgia ripensando a quando era ancora era possibile perdersi per la campagna francese o tra le viuzze e i campielli di Venezia. Il non sapere dove si è, il lasciarsi sorprendere da un’antica osteria o lo scoprire angoli inaspettati può senza dubbio avere il suo fascino. Normalmente, però, solo una volta rientrati a casa.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di settembre 2013.

La rotta verso il bene comune

La fraternità tra gli uomini e la collaborazione per costruire una società più giusta non sono un sogno fantasioso, ma il risultato di uno sforzo concertato di tutti verso il bene comune (INCONTRO CON LA CLASSE DIRIGENTE DEL BRASILE – Teatro Municipale, Rio de Janeiro – 27-7)

Ricordo che il mio compagno di banco delle elementari era il classico monello. Non faceva i compiti, non stava attento e ci prendeva in giro. L’insegnante, il direttore, i genitori avevano provato a sgridarlo, a castigarlo, a farlo ragionare. Senza successo. Poi al maestro venne un’idea. Lo portò in cortile, si accovacciò accanto a lui e indicandogli un aereo che passava in cielo gli chiese: “Ti piacerebbe guidarne uno?”. Gli occhi del bambino luccicarono. “Se da oggi ti comporterai bene, un giorno, lassù, potresti esserci tu”. Quel maestro riuscì dove gli altri avevano fallito. Tutti gli dicevano cosa doveva o non doveva fare, lui gli aveva messo in testa un sogno.

Viviamo in una società che fatica a trovare dei valori su cui contare, segnata da una forte crisi economica, dove spesso gli interessi del singolo sono privilegiati a scapito di quelli della collettività. In questo contesto il Papa ha dimostrato di avere una capacità che pochissimi possiedono. Lui, invece di sgridarci, di ammonirci o di spaventarci ci fa sognare. E non solo. Ci convince che il sogno di una società con meno disuguaglianze, meno ingiustizie e meno sofferenze è possibile.

Possiamo usare la bussola della fede così come possiamo avvalerci di altri strumenti, ciò che conta davvero è che ognuno di noi è in grado e ha il dovere di trovare la propria rotta verso il bene comune. E se tutti puntiamo verso la meta indicata da Papa Francesco, io credo che sognare diventi possibile, anche perché, come diceva Aristotele, “Il tutto è maggiore della somma delle sue parti”. A quel punto chissà che “La fraternità tra gli uomini e la collaborazione per costruire una società più giusta”, che di questi tempi un po’ tristi ad alcuni sembrerà una fantasticheria infantile, non diventi una realtà adulta.

Questo Papa ci ha ridato il coraggio di volgere il naso all’insù e di sognare. Nonostante. Nonostante le incertezze. Nonostante le difficoltà. Nonostante le paure. Il nostro compito, quello, adesso lo sappiamo.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di ottobre 2013 (inserto speciale).

Pubblicità? No grazie!

Attenzione: prodotto contenente alte dosi di pubblicità personalizzata, può inibire il vostro desiderio di scoperta.

Ecco un’altra avvertenza che avrebbe dovuto accompagnare il prodotto internet.

 Gli slogan pubblicitari hanno radici antiche. A Pompei si possono leggere ancora oggi scritte che annunciano feste, gare sportive, spettacoli e fiere o che esaltano le qualità dei bagni pubblici. Tuttavia è solo nella seconda metà dell’Ottocento che la pubblicità comincia a prendere la forma e l’ampiezza a cui siamo abituati. Sui quotidiani di quegli anni appaiono sempre più frequentemente inserzioni promozionali e nascono i primi manifesti, spesso firmati da artisti di valore. Per vedere il primo spot televisivo della storia bisogna però aspettare fino al 1941, quando la rete newyorkese WNBT, prima di una partita di baseball, manda in onda un comunicato che reclamizza un orologio. Col passare del tempo le campagne pubblicitarie, oltre a trovare sempre più canali di comunicazione, cominciano a essere governate da regole scientifiche e a diventare sempre più premeditate e raffinate. Dai semplici coupon per l’assaggio gratuito di Coca Cola si passa al jingle “I’d like to Buy the World a Coke”, che diventa un messaggio di speranza e tranquillità per il futuro in un mondo segnato dalla paura e dall’ansia per la guerra fredda.

AI giorni nostri, con l’avvento di internet nelle case dei consumatori, ha invece preso piede un aspetto in precedenza soltanto abbozzato: quello delle pubblicità mirate che si adattano all’acquirente. Certo, anche una volta gli slogan per le persone più attempate avevano un linguaggio diverso rispetto a quelli per i giovanissimi e venivano trasmessi piuttosto durante un classico del cinema che durante un telefilm adolescenziale, ma è solo con il diffondersi di social networks e siti per acquisti online che si può davvero parlare di reclame personalizzate. Provate a comperare un libro su amazon e vi verranno automaticamente proposti altri titoli simili o acquistati dagli utenti che hanno scelto il vostro stesso prodotto. Scrivete su facebook che il vostro taglio di capelli non vi soddisfa e a destra della vostra pagina vi appariranno offerte per una seduta dal parrucchiere e per rivoluzionarie lozioni fortificanti. O ancora, riservate una vacanza su booking.com e se non state attenti a spuntare le caselle giuste vi ritroverete la buca delle lettere elettronica intasata di allettanti offerte alberghiere (ovviamente legate alla vostre precedenti scelte).

Nella veste di utenti perennemente connessi alla rete, questo tipo di pubblicità ci perseguita e limita la nostra curiosità, specialmente quella dei più pigri. Siamo continuamente imboccati: la parte attiva dell’interessarci a nuovi generi cinematografici o letterari, di scoprire nuovi autori o di fantasticare nuove mete per i nostri viaggi è inibita da questi suggerimenti, che giungono ancor prima che i nostri desideri e la nostra curiosità possano palesarsi.

Se ad esempio siamo appassionati dei libri con protagonista Hercules Poirot e amazon ci consiglia di leggere anche Sherlock Holmesperché mai dovremmo prenderci il rischio di arenarci alla pagina sette di Anna Karenina?

Tutte le attività piacevoli si somigliano fra loro, ogni nuova scoperta crea squilibri a suo modo diversi. Il soffermarsi su ciò che ci piace alla lunga genera monotonia ed è destinato a smorzare l’entusiasmo iniziale, mentre ritengo che sia nello scoprire attività, libri, luoghi (davvero) nuovi che si crei quel disequilibrio che ci permette di metterci in gioco, di far uscire il meglio di noi stessi e di migliorarci.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di ottobre 2013.

iPad ergo sum

Ci sono strumenti e tecnologie a cui diamo una connotazione cha va al di là della loro funzione o utilità. Cercherò di spiegarmi con un esempio. Qualche tempo fa passava sui nostri schermi la pubblicità di un’auto ibrida. Per invogliarci a scegliere questo tipo di vettura, più ecologica rispetto alle concorrenti classiche, anziché mostrarci scenari in cui il petrolio si sarebbe esaurito o in cui l’ambiente si sarebbe infine ribellato ai nostri consumi spropositati, ci venivano proposti due personaggi, uno lo stereotipo opposto dell’altro. Il primo era il classico “alternativo”: (finto) trasandato nel vestire, con l’aria da intellettuale ben informato e attento ai consumi. Il secondo incarnava invece il classico uomo in carriera: ben vestito, con l’espressione di chi sa ciò che vuole dalla vita stampata in faccia e che ama possedere gadget appariscenti. I due protagonisti s’incontravano all’entrata di un parcheggio sotterraneo e, a causa delle ovvie divergenze ideologiche, si guardavano in cagnesco: l’occhialuto dal pullover troppo grande era convinto che l’incravattato guidasse una chissà quale auto sportiva, mentre l’habitué dei locali più alla moda credeva che quel tizio dal giornale perennemente arrotolato sotto il braccio avrebbe aperto la portiera di un catorcio pronto alla rottamazione. Invece, entrambi si trovavano costretti a ricredersi, visto che possedevano lo stesso modello ibrido di non so più quale casa automobilistica. Chi ha ideato questa pubblicità cercava di far passare il messaggio secondo cui l’”essere verdi” è un’attitudine che unisce al di là dei diversi stili di vita e di comportamento.

Questo fenomeno non tocca solo la sfera ecologica. Basti pensare ad esempio all’iPad. Le sue funzioni (più o meno utili) sono molteplici: leggere i giornali, controllare la posta elettronica, andare su facebook, o ancora guardare video e ascoltare musica. Tuttavia ha anche una funzione sociale, che gli abbiamo dato noi, o che gli hanno dato i maghi del marketing, che poco ha a che vedere con il suo uso: nel momento in cui ci mostriamo in compagnia di quest’aggeggio, siamo visti come una persona che ha un lavoro interessante, che legge, che viaggia, che conosce e che deve per forza avere un qualche numero nella vita.

Il fatto che un oggetto o una tecnologia abbia un significato che va la di là dell’oggetto o della tecnologia stessa esiste probabilmente da sempre (basti pensare al possedere qualcosa come sinonimo di benessere economico), tuttavia con l’avvento della società dei consumi questo fenomeno è diventato sempre più variegato: usare l’iphone sull’autobus, se abbinato al vestito giusto, significa essere persone con un lavoro importante che richiede la costante lettura della posta elettronica, andare al lavoro in bicicletta vuol dire avere cura di sé stessi e dell’ambiente.

Non fraintendetemi: se i meccanismi pubblicitari uniti agli stereotipi creati dalla nostra società fanno sì che l’ecologia o una vita un po’ meno sedentaria siano di moda, non ci si può che rallegrare. Casomai ciò che mi rende perplessa è quel nostro uniformarci con scarsa consapevolezza e senza il dovuto spirito critico. Sono riusciti a farci credere che esiste un modo di vestire che unito al set di oggetti e al mezzo di trasporto giusti ci rende belli, interessanti e vincenti. Guidare un’auto ibrida per suscitare ammirazione nel vicino – “Lui sì che s’impegna per una mobilità ecosostenibile” – o per zittire la coscienza, che dopo aver visto quell’immagine di Clooney in bicicletta pretende udienza, ha poco senso se poi si va in vacanza in aereo due volte all’anno. Certo, riuscire nell’esercizio della coerenza è difficilissimo, ma eccellere in quello del seguire le altre pecore è troppo facile.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di agosto 2013.

Ispirazione

Il silenzio e la calma dell’isola hanno fatto riaffiorare rumori e sensazioni che pensavo appartenessero a un altro mondo. Un mondo lontano, nascosto tra i canneti e la laguna. Le mie mani scrivono. Senza tregua. Sono guidate dall’istinto. E traducono con parole imperfette una storia che finalmente è libera dalla paura di non farcela. Felcità, tristezza e malinconia si fondono in uno stato d’animo che mi fa venir voglia ora di gridare di gioia contro le scogliere, ora di starmene zitta a guardare il mare. Desideriamo lasciare il segno e allo stesso tempo ci rendiamo conto di appartenere a un qualcosa di troppo grande per essere davvero compreso. È una magia che a volte diventa condanna.

Tennis

Quando passo i pomeriggi sui campi da tennis mi sembra di tornare ad essere la bambina di un tempo. Spensierata. Un po’arrogante. Felice come lo si è solo a dodici anni, quando tutto sembra ovvio e destinato a non finire mai. Ognuno ha i suoi trucchi per imbrogliare, anche solo per un attimo, il tempo che passa. Questo ha il vantaggio che funziona.

Dopo

Dopo la rabbia. Dopo esserci magari vendicati. Dopo aver provato a giocare mille ruoli senza riuscire ad interpretarne uno che sentissimo davvero nostro. Dopo aver guardato quelle foto ed esserci chiesti chi o cosa ci ha portati ad essere qui, con questi pensieri e con queste espressioni stampate in volto. Dopo aver capito quello che è successo. Dopo la disillusione. Dopo la stanchezza. Dopo. Dopo, restiamo solo noi e quello che avremmo dovuto fare fin dall’inizio. Se siamo abbastanza fortunati con ancora sufficientemente tempo a disposizione per portare a termine il nostro compito, che un po’ è destino, un po’ è dovere e un po’ è sogno.

Eureka!

Alcune invenzioni si sono rivelate inutili, altre hanno facilitato e reso più rapide le nostre azioni di tutti i giorni, e altre ancora sono inaspettatamente andate al di là della funzione per cui erano state concepite, cambiando il nostro modo di pensare, di agire e di relazionarci col prossimo. All’interno di questa terza categoria ci sono poi dei ritrovati della tecnica ancora più sorprendenti di altri, in quanto già la creazione della funzione di base è stata frutto di un imprevisto.

Mi spiego. Erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale e l’Inghilterra aveva da poco rivoluzionato il campo dell’industria bellica grazie all’invenzione di un radar a microonde, sistema in grado di intercettare gli aeroplani tedeschi grazie alle microonde prodotte da un dispositivo chiamato magnetron. Siccome l’industria inglese non era in grado di soddisfare la necessità di produrre un numero sempre maggiore di magnetron, un gruppo di scienziati inglesi partì oltreoceano per incontrarsi con gli ingegneri della Rayethon, società a servizio della difesa americana, sperando che questi ultimi fossero in grado d’ideare un metodo di produzione più rapido di quel marchingegno rivoluzionario. Il viaggio della delegazione inglese si rivelò proficuo e la domanda della loro madre patria fu rapidamente accontentata. Si narra che qualche tempo dopo Perry Lebanon Spencer, un ingegnere della ditta americana, mentre lavorava vicino a un magnetron si accorse che la barretta di cioccolato che aveva in tasca si era sciolta. Al che gli mise vicino dei chicchi di mais, i quali esplosero, trasformandosi in croccanti pop corn. Da quelle osservazioni alla messa sul mercato del primo forno a microonde fu solo questione di tempo.

E così un’invenzione nata per caso è riuscita a portare cambiamenti non indifferenti nell’organizzazione familiare (“Stasera arriverò a casa tardi, ti ho lasciato la cena in frigo, basta che la metti due minuti nel microonde ed è pronta”), a rendere più semplice la vita dei single (i quali non sono più costretti a sfamarsi di latte e cereali), a farci guadagnare tempo (che poi perdiamo in altri modi, ma questo è un altro discorso) e anche a far ritornare in auge i metodi culinari della nonna (“Ti ricordi quando cucinavamo la polenta sul fuoco? Quelli sì che erano tempi in cui si mangiava ancora sano!”).

Un altro esempio è quello della saccarina, che oltre ad aver facilitato la vita ai diabetici, promette ogni giorno di farci gustare bevande zuccherate senza compromettere i risultati ottenuti in palestra. Si racconta infatti che una sera, Costantin Fahlberg, ricercatore alla John Hopkins University durante la seconda metà dell’Ottocento, trovò il pane servito in tavola stranamente dolce. Dopo che la moglie, stizzita, gli rispose che no, non aveva messo lo zucchero al posto del sale, si rese conto che quel sapore dolciastro proveniva dalle sue dita. Decise quindi di analizzare i derivati del catrame con cui era entrato in contatto in laboratorio e scoprì così che la sostanza dal gusto simile allo zucchero era un prodotto dell’ossidazione dell’o-toluenesulfonamide.

A questo punto mi sembra interessante far osservare come queste scoperte casuali fossero molto più probabili in epoche in cui determinati fenomeni fisici, composti chimici o meccanismi biologici non erano ancora stati studiati in maniera esaustiva. Riprendendo l’esempio del forno a microonde, il signor Spencer del giorno d’oggi sarebbe perfettamente in chiaro sul potere riscaldante delle microonde e si chiederebbe quale applicazioni potrebbe avere. Il caso ha spazio laddove l’uomo è (ancora) ignorante.

 Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di luglio 2013.

Caro maestro

In questa rubrica ho finora parlato di quelle tecnologie che sono arrivate nelle nostre case (e nelle nostre tasche) con un libretto d’istruzioni dettagliatissimo dal punto di vista tecnico ma assai carente circa il modo di comportarsi nei loro confronti, e che hanno quindi creato tutta una serie di nuove abitudini, di modi di pensare, di agire e di relazionarci col prossimo, spesso difficilmente prevedibili prima che l’invenzione in questione prendesse piede. Riguardo alcuni di questi cambiamenti non ho (quasi) nulla da obiettare e da un certo punto di vista possono anche venir definiti come dei veri passi avanti. Altri mi sembrano invece decisamente più discutibili. Decidere come vestirsi aprendo l’applicazione meteo invece della finestra, ad esempio, si presta bene ad una presa in giro ma rimane un gesto piuttosto innocuo, mentre controllare la posta elettronica in continuazione – di notte, in spiaggia, sulla seggiovia, aspettando che il semaforo diventi verde – rientra secondo me nella categoria delle abitudini da evitare, per le quali dovrebbe entrare in vigore il manuale del buon senso, annunciato tuttavia fuori catalogo da diverso tempo.

Indubbiamente le nuove tecnologie svolgono un ruolo di primo piano in questi cambiamenti controversi e inaspettati. Ci sono però anche altri ingredienti che hanno avuto effetti simili o addirittura più ampi, in quanto giunti pure loro sprovvisti d’istruzioni per l’uso. Pensate ad esempio alle ideologie educative in ambito scolastico.Ci fu una generazione che giustamente puntò il dito e si rivoltò contro un sistema d’insegnare e di educare esageratamente severo, dai metodi inflessibili e in cui non mancavano le punizioni corporali. In quegli anni si parlava di un sistema di valutazione senza i voti, dell’importanza di non sfiorare mai un allievo, di concetti come quello dell’imparare giocando e divertendosi, e si cercò di tradurre queste idee in un nuovo modo di fare scuola e di formare gli adulti del futuro. E così, benché ci fu anche il contrappeso dei più conservatori, i quali si limitarono a ridurre al minimo i manrovesci e a far scrivere solo dieci volte, anziché cento, il classico “Non devo chiacchierare in classe”, il risultato è che al giorno d’oggi dare da studiare una lista di verbi o di vocaboli ha il retrogusto di un metodo anacronistico e inutilmente faticoso – è passata l’idea che imparare deve essere facile e divertente – e se il docente ritira uno smartphone si ritrova fuori dall’aula genitori indignati che gli chiedono come farà mai il loro pargolo a comunicare con i suoi amichetti (forse a voce?).

A mio modo di vedere l’idea che la scuola era troppo severa e noiosa avrebbe dovuto essere accompagnata da alcune avvertenze, come ad esempio: pretendere di far imparare la grammatica italiana cantando crea una generazione convinta che la cosecutio temporum sia una brutta malattia, o dando a un’insufficienza la connotazione di “è solo un voto” non si educa all’insuccesso, o ancora togliendo al docente qualsiasi autorità si mina anche alla sua credibilità. Certo, col senno di poi è facile fare certe considerazioni e inoltre questi sono solo degli effetti collaterali di una medicina che ha migliorato le condizioni del sistema scolastico. Tuttavia è innegabile che quest’ultimo è ancora zoppicante e non è pronto per essere dimesso. Da qualche tempo c’è chi suggerisce di somministrargli l’amara tisana della nonna, fatta di grammatica e di qualche brutto voto. Resta da vedere se il palato reggerà.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di giugno 2013.

L’ha detto la radio

“L’ha detto la radio” soleva affermare mia nonna per convincere chi si mostrava perplesso di fronte alla notizia che stava riportando. Ai suoi tempi la radio era sinonimo di fonte d’informazione seria, autorevole e degna della massima fiducia, e le opinioni di coloro che utilizzavano questo mezzo di comunicazione erano studiate, ragionate e spesso di grande importanza. I discorsi radiofonici di Charles De Gaulle dalla sede di Radio Londra, con i quali il leader delle forze armate della Francia libera invitò i Francesi a unirsi a lui nella lotta contro l’occupazione tedesca, o le settimanali “chiacchierate attorno al caminetto” di Roosevelt, attraverso le quali il presidente americano sostenne il morale delle famiglie statunitensi durante la guerra, ne sono un esempio.

Inoltre in quegli anni questo strumento non si limitò solo al ruolo di tramite ma fu anche uno dei principali protagonisti degli avvenimenti storici che imperversavano sull’Europa e sul mondo. Radio Londra infatti, trasmettendo i primi versi di una poesia di Paul Verlaine, che per i più non significavano nulla ma che per la resistenza francese erano sinonimo di uno sbarco imminente degli alleati, permise ai Maquis di compiere azioni di sabotaggio contro la rete logistica tedesca – furono prese di mira stazioni ferroviarie, binari, ponti, incroci stradali e depositi di munizioni – e di preparare il terreno a uno degli avvenimenti più importanti della seconda Guerra mondiale.

Oggigiorno ci sono ancora personalità di un certo calibro che trasmettono le loro idee attraverso la radio, essa viene tuttora utilizzata per questioni serie ed importanti, e i radiogiornali (nella maggior parte dei casi) non hanno perso la nostra fiducia. Tuttavia tra i discorsi che faranno forse la storia e le notizie che magari qualcuno ricorderà anche il prossimo secolo si è intercalata la voce dell’uomo qualunque, la cui opinione su un determinato tema è divenuta altrettanto valida e degna di essere espressa quanto quella di un esperto. Il problema? Come scrive Paola Mastrocola nel libro “Togliamo il disturbo”, il fatto che in questo contesto “tutti i giudizi, le idee, i pareri, le domande, le risposte, le richieste, le analisi, le barzellette… sono sullo stesso piano” e “nessuno si chiede se quel che sta per dire abbia un senso o una sua ragione per essere detto”. Certo, tutti abbiamo il diritto di esprimere la nostra opinione, ma dovrebbe trattarsi di un’opinione informata e ragionata, che subisce la soggezione di quella di chi ha studiato e analizzato l’argomento più a lungo di noi. Invece, in preda al panico di non venir ascoltati, ci preoccupiamo più del diritto di dire la nostra che di quello di ottenere informazioni di qualità. La radio, così come la televisione, è giunta senza istruzioni e noi abbiamo lasciato che a scriverle fosse la paura di non riuscire a marcare la nostra presenza in questa società che ha reso il verbo “apparire” sinonimo di “esistere”.

Con la frase “l’ha detto la radio” non si convince più nessuno: la componente sottintesa non è più la veridicità ma un’indispensabile messa in discussione e verifica. A ciò che dice mia nonna però ci credo ancora, soprattutto dopo che l’altro giorno, sentendo non so quale trasmissione, ha commentato: “Non è più la radio di una volta”.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di maggio 2013.

Scremati e arricchiti

La nascita e la diffusione di ogni invenzione (o quasi) è supportata da un certo numero di premesse tecnologiche, sociali e culturali. È difficile ad esempio immaginare la nascita della posta elettronica senza il precedente avvento dei computer e senza una necessità (che spesso diventa abitudine) da parte della nostra società alla comunicazione non verbale a distanza. A mio modo di vedere ci sono tuttavia ritrovati tecnologici dai presupposti meno ovvi e forse più interessanti di altri. Mi spiego. Nel caso appena citato dell’email, o se prendiamo in considerazione invenzioni come la lampadina o il frigorifero, subito ci vengono in mente diverse premesse che le hanno rese praticamente indispensabili. Invece, di fronte a prodotti come il caffè senza caffeina, il tè senza teina, la Coca Cola senza zucchero e il latte talmente scremato da sembrare acqua, la faccenda, anche senza considerare la complicata base tecnologica necessaria alla loro produzione, si fa più complessa. Certo, mi potreste dire che il loro successo si basa sul nostro desiderio di goderci il piacere di certe bevande senza incappare nei loro effetti collaterali. Lasciatemi però analizzare questo meccanismo più da vicino. Siccome un bicchiere di una bevanda zuccherata ogni tanto non ha mai causato il diabete a nessuno, così come una tazza di caffè non ha mai provocato insonnie croniche, significa che questi (almeno all’apparenza) innocui sostituiti sono sugli scaffali dei supermercati per renderci meno nocivi non dei saltuari piaceri, bensì delle cattive abitudini che in alcuni casi sfociano in dipendenze. Al tempo dei bollini per l’acquisto del pane o dello zucchero, questi problemi evidentemente non sussistevano, mentre ai giorni nostri, siccome non ci sono più ristrettezze, possiamo acquistare qualunque prodotto che richiami la nostra attenzione. Di fronte a questa (fin troppo) ampia libertà d’acquisto spesso ci dimostriamo incapaci di prediligere ciò che ci fa stare bene e così ci vengono proposti prodotti che limitano i danni causati delle nostre abitudinarie cattive scelte.

Per di più non ci sono solo cibi e bevande a cui sono state tolte quelle sostanze che, se assunte in quantità esagerata, ci fanno male ma anche alimenti a cui sono stati aggiunti prodotti spesso carenti nella nostra alimentazione. E così sono apparsi il latte arricchito di vitamine, i succhi di frutta con l’aggiunta di calcio e il pane che contiene gli omega 3. Ma anche in questo caso bisogna stare all’erta: chi si appassionasse un po’ troppo ai cereali con l’aggiunta di vitamina B12 rischierebbe di assumere in una sola giornata il quantitativo consigliato per una settimana, e chi bevesse distrattamente un bicchiere di succo d’arancia e uno di latte farebbe andare alle stelle i livelli di calcio e vitamine (chissà che succede?).

Non fraintendetemi, per coloro a cui ad esempio non piacciono né la frutta né la verdura, il latte arricchito di vitamine può rivelarsi una valida soluzione, così come gli edulcoranti possono rendere la vita più facile ai diabetici. Credo però, e qui mi riferisco a tutti coloro che non hanno scuse valide, che la questione di fondo sia che ci si gode davvero qualcosa, in questo caso un cibo o una bevanda, solo quando non lo si può avere in tavola ogni giorno: si gusta molto di più il caffè il marito che, saltuariamente, riesce ad aggiungere di nascosto un cucchiaino di zucchero non appena la moglie si distrae, di quello che, rassegnato, ogni sera aggiunge un qualche edulcorante nella sua tazzina.

In questa confusione c’è chi, di fronte a un pranzo a casa della nonna, ha gridato alla (ri)scoperta di prodotti sani e nutrienti. E ne è nata una linea alimentare.

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di aprile 2013.

Sguardi

Avevo spesso sentito dire che ci sono sguardi che valgono mille parole e in alcune occasioni avevo l’impressione di aver percepito il significato di questa frase, entrata nel linguaggio comune e assai banalizzata. Tuttavia solo qualche giorno fa ho capito la sua portata.

Ero andata in ospedale a trovare un amico di famiglia sfuggito alla morte per un soffio, quel soffio che alcuni chiamano caso o  fortuna, mentre altri destino. Un po’ come quando la pallina da tennis va a finire sul nastro e se ne sta lì, in bilico, beffarda, per qualche frazione di secondo e poi, quasi per magia, un soffio di vento o un colpo di tosse dell’arbitro nella direzione giusta la fa cadere dall’altra parte della rete regalandoci il punto e la partita. Quando ho varcato la soglia della sua camera ci siamo sorrisi, ma non era un sorriso normale di due persone contente di vedersi. Se prima che io arrivassi avevamo la consapevolezza del fatto che quell’incontro non era per nulla scontato, nel momento in cui i nostri sguardi si sono incrociati ci ha invaso una sorta d’incredulità, un po’ come quella del giocatore che alza le braccia al cielo e s’inginocchia al cospetto del pubblico festante, realizzando il sogno di un’infanzia. In quella frazione di secondo la paura della morte si è mischiata alla gioia di poter ancora parlare, esprimere opinioni, ridere, piangere, arrabbiarsi, spazientirsi, mangiare, osservare, ascoltare, vivere. E di colpo ho sentito una calma profonda prendere il sopravvento su qualsiasi preoccupazione, arrabbiatura, o soddisfazione. Lui era vivo. Io avevo realizzato di esserlo. Avevamo vinto. Per quel giorno poteva bastare, dell’avversario successivo ci avremmo pensato in seguito.

È buffo, quando ci scontriamo con l’essenza della vita capiamo che poco o nulla di quello che facciamo giornalmente ha importanza o ha un senso, ma allo stesso tempo abbiamo bisogno delle piccole occupazioni affinché certe domande in grado di farci perdere la ragione ci diano un po’ di tregua.

L’uomo (politico)

Francamente faccio fatica  a capire.

Certo, in vent’anni di politica una qualche idea buona l’ha avuta e ha obbligato i partiti storici a un confronto costante. Inoltre, so bene che il populismo ha un fascino non indifferente sull’elettore medio, e posso capire che i suoi modi irriverenti nei confronti delle cariche pubbliche abbiano suscitato simpatia nelle persone comuni, le quali continuano a pensare che se fossero al posto di certi governanti “saprebbero ben loro cosa fare” e confondono il far politica col fare opposizione. Sono anche cosciente che l’ineluttabilità della condizione umana, salvo rare eccezioni, lasci sempre sgomenti e che in questo stupore si tendano (in parte giustamente) a mettere in secondo piano le sparate della domenica mattina, gli insulti e la derisione.

Fino a un certo punto.

A mio modo di vedere stiamo esagerando, stiamo innalzando a mito un personaggio che si è dimostrato spesso razzista, che ha più volte infangato numerosi avversari politici, cittadini, persone di cultura, e che è riuscito a far passare l’idea che la pacatezza, la mediazione e la ragionevolezza sono sinonimo di politico poco carismatico e incapace. Soprattutto non capisco i suoi nemici, i quali lo criticavano (eufemismo) fino a qualche giorno fa ed ora riescono a trovare parole di elogio che vanno al di là dell’educazione e della sensibilità nei confronti della morte.

È morto un uomo, ma allo stesso tempo è morto anche un politico. E se è giusto che l’uomo venga pianto e ricordato, magari sepellendo insieme al lui anche alcuni dei suoi aspetti più bui, è altrettanto doverso, affinché certi errori non si ripetano, non dimenticare gli eccessi del personaggio politico.

Quattro anni di scatole

Non credo alle sfilze di “dott.” e “prof” davanti al cognome, credo solo nelle esperienze che lasciano il segno e che fanno parlare, agire, pensare in maniera più consapevole. Certo, un traguardo accademico può significare una buona dose di messa in discussione, d’impegno e di mille altre qualità, tuttavia esse non dovrebbero aver bisogno di un appellativo per venir notate. Inoltre, così come queste qualità si possono acquisire attraverso avventure che esulano completamente dall’ambito universitario, così ci sono presunti luminari della scienza sui quali il percorso accademico non sembra aver lasciato nessuna traccia di capacità che vadano oltre la risoluzione di equazioni differenziali.

E così, benché del titolo ottenuto qualche giorno fa me ne infischio, credo nell’esperienza di questi quattro anni, faticosa, istruttiva e a tratti frustrante. Beninteso, non si è trattato di lavorare in miniera, ma quello che viene definito “fare ricerca” è un’attività che può rivelarsi insidiosa. Mi spiego. Immaginate di dover traslocare e di dover quindi trasportare degli scatoloni dalla vecchia alla nuova casa. Bene. Definiamo allora come lavoro “normale” quello di dover trasportare delle scatole da un luogo all’altro con un furgoncino. Ora nel caso di un dottorato la faccenda si complica: sospettate che potrebbe essere interessante ottimizzare il trasportarto di quelle scatole ma non sapete esattamente né da dove a dove dovrete spostarle (sembrerebbe che la distanza sia di qualche chilometro, ma ci sarà l’autostrada o un sentiero di montagna?)  né con che mezzo (l’elicottero potrebbe farvi guadagnare tempo, ma siete sicuri di avere sufficientemente spazio per atterrare?) e nemmeno se davvero ne vale la pena (chissà, magari tra qualche anno esisterà il teletrasporto). Senza contare poi chi cerca di rubarvi le scatole, chi sostiente di aver trovato un modo rivoluzionario per trasportarle anche se non è vero, e chi vi consiglia di usare l’elicottero e qualche tempo dopo vi dice (davanti a un po’ di gente, altrimenti non è divertente): “L’elicottero! Ma che idea del piffero!”.

Se sono riuscita a trovare un modo nuovo e interessante per trasportare degli scatoloni non lo so nemmeno io, però hanno giudicato che mi sono scervellata abbastanza a lungo e che ho fatto un numero sufficiente di proposte di trasporto (dall’elicottero alla slitta, quest’ultimo sistema si applica solo ai paesi in cui fa sufficientemente freddo però) da meritarmi la qualifica di esperta in spostamento di contenitori ingombranti a mobilità ridotta .

E così, come in ogni finale che si rispetti, vorrei ringraziare tutti coloro che in un modo o nell’altro mi hanno dato una mano ad uscire indenne da un mondo per i miei gusti troppo quadrato; giocando a tennis, chiacchierando davanti a un caffé, ridendo, scherzando, sopportandomi, facendomi arrabbiare, obbligandomi a ragionare , dicendomi cosa avrei dovuto o potuto fare, condividendo attimi. I gesti eccezionali, quelli in grande stile, fanno il loro effetto, certo, ma sono i dettagli che contano e quelli di cui mi avete circondato creano un mosaico unico fatto di diritti, si rovesci, di espressi macchiati, di battute, di nervosismi, di discorsi infiniti, di giustificazioni, di scuse, di viaggi. Grazie.

Per quei pochi altri che mi hanno o a cui ho fatto del male vanno il mio perdono e le mie scuse. Non per educazione e nemmeno per un desiderio di ordine e pulizia, semplicemente perché il perdono cancella la paura, e le scuse, se sincere, obbligano alla consapevolezza.

Scatti d’(ir)realtà

Nasi ridimensionati, gambe più snelle, UFO tra le nuvole, personaggi scomodi che improvvisamente sembrano non aver mai partecipato ad un certo raduno, frammenti di storia resi più o meno tragici. Fotomontaggio e fotoritocco esistono fin dagli albori di questa tecnica e arte, come dimostra la fotografia datata del 1860 esposta per decenni in svariate aule scolastiche ed edifici pubblici che raffigura il Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln: il ritratto è infatti composto dalla testa di Lincoln e dal corpo del politico John Calhoun – sembrerebbe che il ricorso al fotomontaggio si fosse reso necessario poiché non esisteva una foto in cui il Presidente fosse ritratto nel giusto “atteggiamento eroico”.

In seguito questo processo di creazione di un’immagine formata da ritagli e accostamenti di diverse fotografie venne impiegato in numerosi campi – come ed esempio in quello che viene definito delle scienze occulte, per tentare di dimostrare la veridicità di certe apparizioni, in ambito artistico, con lo scopo di suscitare sorpresa o stupore nell’osservatore, oppure in politica, come strumento di consenso e per influenzare l’opinione pubblica – ma si trattò, rispetto alle dimensioni odierne del fenomeno, di episodi isolati. L’avvento del digitale e di strumenti come Adobe Photoshop ha infatti reso l’esecuzione di fotomontaggio e fotoritocco assai più semplice e la loro accuratezza è tale da rendere quasi impossibile, ad un primo colpo d’occhio, la distinzione con l’originale. La consapevolezza che le fotografie che abbiamo davanti potrebbero non corrispondere all’originale non è però andata di pari passo: per quanto spesso sospettiamo che il naso di un attore non passi così inosservato come una certa rivista vorrebbe farci credere e che le gambe di una modella non siano effettivamente così slanciate come sostiene il cartellone pubblicitario sotto casa, difficilmente mettiamo in discussione un reportage di guerra o di un terremoto in un angolo remoto del mondo. Per più di un secolo siamo stati abituati a considerare la fotografia come testimonianza della realtà e così, nonostante oggi la creazione di un fotomontaggio sia alla portata di tutti, ci illudiamo tutt’ora che esso tocchi quasi esclusivamente aspetti relativamente poco importanti o in cui la sua presenza è lecita, quello estetico o artistico ne sono un esempio, mentre numerosi casi dimostrano purtroppo il contrario, come l’episodio dei bombardamenti israeliani a Gaza nel 2009, in cui a una foto di un palazzo sventrato dalle bombe furono aggiunti un elicottero e un missile, con l’evidente scopo di far apparire più crudele una delle due parti il lotta.

Forse al giorno d’oggi anche davanti alle fotografie senza nessuna pretesa artistica bisognerebbe innanzitutto chiedersi quale fosse il messaggio che l’autore voleva veicolare piuttosto che da quale scenario fosse circondato al momento dello scatto. Tralasciando il discorso dell’etica, che spesso si scontra con i nostri lati meno nobili, credo quindi che in questa società dell’informazione l’unica soluzione per avvicinarsi alla verità dei fatti standosene seduti in poltrona sia quella di dubitare prima di guardare e di prendersi la responsabilità di verificare le informazioni che riceviamo.

Per maggiori informazioni riguardo gli esempi citati: http://tesi.eprints.luiss.it/7/2/Davide_Macchia_-_604352_-_Tesi.pdf

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di Marzo 2013.

Il libro di domani

Abbiamo digitalizzato (quasi) tutto: fotografie, brani musicali, film, documenti di testo, informazioni relative a cose o persone. Questo processo ha indubbiamente facilitato la loro gestione (con un paio di click siamo ad esempio in grado di ritrovare quella canzone che ci piaceva tanto da ragazzi) e ha portato numerosi vantaggi in termini di spazio e di trasporto (gli scatoloni con scritto “Grecia 1992” o “Pop/Rock” sul coperchio sono stati rimpiazzati da chiavette USB e hard disk esterni). In questo processo era inevitabile che prima o poi venissero inglobati anche i libri e così è apparso il Kindle, strumento portatile in grado di contenere uno svariato numero di romanzi, saggi e poesie, il cui schermo ci permette di leggere senza che la nostra vista si stanchi. Tuttavia, benché questo ritrovato tecnologico esista già da qualche anno, sono ancora in molti a preferire la versione cartacea e ad asserire che nulla può sostituire la sensazione di tenere un libro tra le mani e il poterne voltare le pagine.

Sorge quindi spontanea una domanda: il libro ha un qualcosa in più, un valore intrinseco che difficilmente può venir soppiantato da una tecnologia, o  invece si tratta soltanto di un’illusione che prima di noi hanno avuto, ad esempio, coloro che ascoltavano i 33 giri? La storia sembrerebbe dare più credito alla seconda ipotesi: molto probabilmente quando lo schermo rigido del Kindle diverrà flessibile e pieghevole quanto un foglio di carta e quando soprattutto sarà in grado di compiere più funzioni, nessuna rilegatura, copertina o odore di carta stampata potrà reggere il confronto. Forse, tempo qualche generazione, e nessuno proverà più nostalgia leggendo un foglio virtuale, così come io non percepisco nessun romanticismo quando qualcuno mi parla del gracchiare che faceva il vecchio giradischi.

Tuttavia non si tratta di una semplice sostituzione di un oggetto ormai antiquato con uno più performante. Mi spiego. Innanzitutto queste tecnologie stanno ridefinendo il concetto di “possedere”: non possediamo più un album musicale o un film, bensì il diritto di riprodurli, non possiederemo più un libro ma il diritto di leggerlo, col rischio che il tal film o testo “scomodo” venga cancellato dalle immense librerie online. Secondariamente chi ascoltava un certo brano su un giradischi si prendeva il tempo di prendere un 33 giri dallo scaffale, di toglierlo dalla custodia, di posizionare la puntina e di ascoltarlo. Si trattava di un’azione consapevole contraddistinta dalla volontà di ritagliarsi un momento in cui non si faceva nient’altro se non ascoltare quella canzone, così come succede ancora oggi leggendo un romanzo. Con l’avvento di strumenti come gli smartphones c’è una banalizzazione dell’ascolto, del guardare film o fotografie, del leggere messaggi: facciamo tutte queste operazioni senza pensarci, magari in contemporanea, senza prenderci il tempo di assaporarle con la dovuta calma.  Infine, c’è l’aspetto della sicurezza, che si applica in particolar modo ai libri: le parole stampate sono un qualcosa di reale che non svanisce con un semplice click e sono in grado di dare un sensazione di affidabilità che nessun pixel o byte sarà mai in grado di ricreare. E chissà che non sarà proprio questo bisogno di toccare con mano a salvare le ingombranti pagine d’inchiostro da un processo di digitalizzazione che sembra essere sempre più inevitabile.

Nel romanzo di Victor Hugo, l’arcidiacono Claude Frollo si chiedeva nostalgicamente se il libro stampato avrebbe sostituito la sua bellissima cattedrale. Il progresso non manca certo d’ironia: il kindle soppianterà a sua volta il libro? Ceci tuera cela?

Articolo apparso sul mensile “Frate Indovino” di febbraio 2013.

Si può essere più stupidi di così?

C’è la sensibilità di chi si commuove di fronte a una scena toccante di un film o fatica a gettare un oggetto che gli ricorda luoghi e persone a cui vuole o ha voluto bene. Si tratta di una sensibilità immediata, facile da spiegare e da capire. Nessuno ha obiezioni di fronte a una giustificazione come: “No, quello non buttarlo, me l’ha regalato mia madre quand’ero ragazzo” o “Alla fine di Forrest Gump mi viene sempre da piangere”.

C’è poi una sensibilità più complessa, meno immediata, difficile da spiegare col le parole, che sento mia. È il magone che mi ha preso quando ho colto lo scambio di sguardi tra due persone segnate dalla vita che finalemente sono riuscite a riacquistare un po’ di leggerezza. È quella malinconia che mi attanaglia quando tornando a casa la sera guardo verso il cielo e mi metto a parlare a quell’uomo dalla penna sottile che non c’è più, cercando una risposta tra le stelle e il vento gelido, dandomi della pazza e allo stesso tempo sentendomi terribilmente viva. Ed è anche quel nodo che mi si è formato in gola quando mi sono ritrovata dopo anni con gli stessi amici di quand’ero bambina e mi sono sorpresa a pensare che la vita ci ha lanciato allo sbaraglio, quasi fossimo dei dadi, curiosa di vedere il risultato di un padre che non torna dalle vacanze – “Toh, è uscito un 3!” – o di sogni e amori andati in pezzi – “Ancora un 2!” – senza capire che con quei numeri noi abbiamo dovuto impare a convivere.

I miei occhi si rifiutano di versare anche solo una lacrima per il gesto disperato del protagonista di un film o per degli oggetti appartenuti a un passato incapace di riclarsi in presente finiti nella pattumiera. Mi sembra una distrazione dall’essenza delle cose o forse una specie di diluzione di un solo problema di fondo su di un certo numero di situazioni o cose a basso impatto. Io non voglio intrattenimenti o distrazioni, se c’è stato un dramma voglio vederlo, osservarlo, soppesarlo, rigirarmelo tra le mani per intero, col rischio che sia troppo ingombrante per tenerlo sempre in bella mostra in salotto e, ogni tanto,  di doverlo mettere in un ripostiglio per un po’.

Prendo in giro chi da importanza a una lettera colma di parole d’affetto ma osservando la persona che amo difendere con convinzione le proprie idee m’immagino con lei da vecchia. Ancora innamorata. Ancora testarda. Forse con un pizzico di voglia di aver ragione in meno. Rido di chi ha gli occhi umidi per una scena strappalacrime che passa in tv e allo stesso tempo è sufficiente uno sguardo, un odore, o un gesto per ricordarmi che un giovedì di luglio di tanti anni fa un ristorante ha aspettato invano per ore uno dei suoi clienti più assidui e una bambina e tornata dalle vacanze con la consapevolezza di un vecchio.

Odio e disprezzo la sensibilità immediata, causa-effetto, tanto quanto vorrei averla e tanto quanto credo di non potermela permettere. Sarebbe un’ammissione diretta di debolezza e una parte di me pensa ancora che là fuori ci sia un mondo che si aspetta che io sia forte.

Si può essere più stupidi di così?